25 aprile: ricordiamo Eugenia Farè
In occasione del 25 Aprile, 75° Anniversario della Liberazione, gli studenti della 2B della scuola media del nostro Istituto Comprensivo hanno voluto ricordare la figura di Eugenia Farè, a cui è intitolata la nostra scuola secondaria di I grado, di cui è stata preside dal 1968 per diversi anni.
Eugenia Farè nacque a Milano il 27 marzo 1921 da genitori antifascisti. Nel 1929 con la madre e lo zio Enrico si trasferì a Lissone e successivamente a Monza. Qui frequentò il Ginnasio – Liceo Classico “Zucchi”.
Ebbe l’infanzia segnata dall’incubo delle perquisizioni notturne dei fascisti e degli arresti dello zio, Enrico Farè, che viveva con loro. Quando nel 1942 si costituì il Fronte Antifascista a Monza, lo studio dello zio divenne uno dei luoghi di ritrovo degli antifascisti monzesi. Eugenia nel 1943 aderì ai Gruppi di Difesa della Donna e partecipò alla deposizione di fiori ai caduti della Resistenza nel cimitero cittadino l’8 marzo.
Dopo la laurea nel 1944, Eugenia ottenne una supplenza al Ginnasio Zucchi ed entrò a far parte del CLN della Scuola. Nel dopoguerra fu Consigliere comunale per 18 anni per il P.S.I. e per altri 3 anni per il P.C.I. Svolse poi la sua attività di insegnante presso la scuola media “Zucchi” a Monza. Dal 1968, fu preside della scuola media D. Birago di Lissone, che nell’anno scolastico 1985/86 le venne intitolata. Morì nel 1984.
Riportiamo un’intervista che è stata raccolta in occasione del quarantesimo anniversario della lotta di Liberazione. Insieme ad altre testimonianze, fu presentata nell’ottobre del 1983 a Monza, nel centro NEI, dedicato allo zio di Eugenia, Enrico Farè (Verona, 1883), ultimo sindaco di Monza prima dell’avvento del fascismo e primo dopo la liberazione. Ancora bambina lei ha dovuto confrontarsi con adulti che lottavano e morivano per la libertà e la democrazia. E la scuola? Era un vivaio di formazione fascista ma ogni tanto si incontrava una “pianta diversa”.
“Un’infanzia senza spensieratezza”
“Confesso che sono piuttosto imbarazzata perché non credo che quanto mi accingo a dire rappresenti qualcosa di nuovo o di eccezionale. Non so neppure se altre amiche, altre donne, si riconosceranno nelle mie parole. La mia è un’esperienza personale e forse per chiarire meglio il mio pensiero occorre una premessa.
Sono nata e vissuta in una famiglia un po’ diversa dalle altre che mi vivevano accanto. La mia infanzia non è stata felice se con questo termine si intende spensierata, gioiosa e completamente serena.
I miei primi anni sono trascorsi nell’incubo delle perquisizioni notturne dei fascisti, degli arresti di mio zio che viveva con noi, prima e dopo la morte di mio padre. Per sottrarmi a questi, che oggi si chiamerebbero “traumi”, i miei genitori mi misero per un paio d’anni in collegio dal quale uscii per andare a vivere a Lissone. Non fu divertente né l’uno né l’altro soggiorno. Non ero iscritta all’Opera Nazionale Balilla e perciò la mia maestra mi mise in un banco isolato. Non si frequentava la chiesa e perciò non erano molte le compagne di classe che mi frequentavano. Però, nonostante ciò, mi sentivo fortunata perché vivevo accanto ad una persona che mi trattava da adulta. Parlavo con i suoi amici che venivano da Milano, leggevo, allora, libri di cui altre bambine ignoravano l’esistenza.
A Monza le cose cambiarono un poco, non molto. Continuammo a vivere senza molti amici, ma i pochi erano per me persone favolose. Erano i vecchi socialisti Motta, Crippa, Piazza, Fumagalli, a cui più tardi si aggiunse l’on. Riboldi, comunista, quando uscì dal carcere. Da loro ascoltavo parole che a scuola erano proibite, conoscevo vicende di cui non si poteva parlare, ma che mi aiutavano a capire il mondo in cui vivevo e a sottrarmi al condizionamento della stampa e della scuola, fasciste o fascistizzate.
Tutto sommato, mi consideravo una privilegiata, anche se la mia vita non era simile a quella dei miei coetanei, ai quali (l’ho saputo di recente) incutevo una certa soggezione, perché mi sentivano diversa.
Quando alla fine del liceo ebbi qualche insegnante non propriamente in linea con i tempi, mi parve di fare una scoperta nuova. Mi bastava una sfumatura, l’uso di un aggettivo, un commento appena accennato per riconoscere un amico, uno “non in linea” con la politica del tempo. Purtroppo anch’io, come tutti, allora ero iscritta alla Gioventù Italiana del Littorio perché ad un certo punto, per evitare diserzioni, era automatica l’iscrizione. Si pagava la tessera insieme con le tasse di frequenza alla scuola. Ed allora bisognava avere una certa fantasia per sottrarsi all’obbligo delle adunate, delle sfilate in divisa. A date fisse anche gli insegnanti erano costretti a indossare la divisa durante le lezioni e, poiché non tutti erano dei “fusti”, mi liberavo dell’atmosfera cogliendo gli aspetti comici.
La scuola era aperta a maschi e femmine, ma qualcuno sosteneva che noi ragazze avremmo dovuto restarcene a casa a fare le casalinghe, le sartine, magari le dattilografe. Ricordo, ad esempio, un tema assegnato per concorso, che dava la misura del concetto che si aveva della donna: “Oggi sei figlia e sorella, domani sarai sposa e madre, ecc.”
Era la casa il posto della donna. Non per nulla era stata istituita la tassa sul celibato, per gli uomini fino ai cinquant’anni. Non si concepiva che la donna si sottraesse volontariamente al compito di essere moglie e madre. E soprattutto madre prolifica.
Io la pensavo diversamente e mi irritava questa sottovalutazione della posizione della donna, delle sue capacità, del suo diritto a partecipare alla costruzione della società. In queste mie convinzioni mi incoraggiava una serie di letture e di discussioni che facevo con gli amici di casa e, soprattutto l’esempio e le parole di mia madre.
La guerra.
Finivo il liceo quando scoppiò la guerra. Ricordo che poco prima, nella primavera, una mattina trovai la scuola quasi deserta perché i miei compagni stavano partecipando ad una manifestazione, chiaramente pilotata, a favore dell’intervento.
In classe eravamo in poche ragazze e fra queste una, con la quale ero diventata amica dopo la promulgazione delle leggi razziali. Era figlia di una donna ebrea. C’era anche l’insegnante, l’unica donna del corpo docente, esclusa quella di educazione fisica, la quale ci chiese perché non avevamo partecipato alla manifestazione. Risposi: “Perché la guerra non mi piace”; rimase zitta, ma anni dopo la ritrovai ad una manifestazione di insegnanti democratici. Era la stessa insegnante che al suo arrivo al Liceo aveva provocato il commento di un professore, valentissimo professionalmente: “Adesso ci mancano anche le donne!”. Era questo l’insegnante che, non ricordo per quale episodio di “indisciplina” ci aveva minacciati così: “I miei Soldati che non mi obbedivano li mandavo sull’Amba Aradam”, riferendosi alla guerra per la conquista dell’Abissinia.
L’Università mi aprì un mondo nuovo, diverso. Il clima della guerra, anziché rendere più passivi gli antifascisti veri, aveva accentuato l’avversione al regime ed anche molti giovani che collaboravano al giornale “Libero moschetto” avevano assunto posizioni di fronda. Ne conobbi alcuni che mi proposero di lavorare con loro, ma preferii limitarmi ad operare a Monza.
A Monza intorno al 1942 si era formato il Fronte nazionale antifascista. Nello studio dello zio (allora in via Parravicini l’attuale via Gramsci,) dove lavoravano anche Ezio Riboldi e Oreste Pennati, si incontravano antifascisti di varie posizioni politiche. Mi chiesero una certa collaborazione, sia pure modesta e me ne sentii profondamente onorata, soprattutto in quanto donna. In fondo non era molto quello che dovevo fare: raccogliere e trasmettere messaggi in codice, battere a macchina qualche appunto molto “innocente” e accessibile solo agli interessati, ecc. Non mi pareva che ciò bastasse e così quando nel 1943 si formarono i Gruppi di Difesa della Donna e di Assistenza ai Volontari della Libertà, vi aderii subito, invitata da una amica – Lina Riva – che lavorava nel negozio Carnelli e che teneva i contatti con Milano. A mia volta formai una piccola cellula con alcune altre giovani monzesi e iniziammo il lavoro.
Non credo sia necessario dilungarsi molto per chiarire gli obiettivi del movimento. Nessuna preclusione ideologica, purché ci fosse concordanza su alcuni obiettivi di fondo, quali una diversa concezione della posizione della donna nella società e il riconoscimento dei suoi diritti di parità assoluta con l’uomo e di partecipazione alla vita politica e sociale; rifiuto del nazifascismo e della guerra; una nuova società che doveva nascere da una costituzione diversa; non si discuteva ancora se dovesse esserci una monarchia costituzionale o una repubblica.
Un giorno mi incaricarono di prendere contatti con un rappresentante del mondo cattolico. Mi diedero il nome della via, mi descrissero la casa, mi dissero a quale piano sarei dovuta salire. Mancava il nome, e ciò era normale. Ci andai, bussai e mi trovai davanti Emilia Mosca, una compagna di Liceo. Tutto da rifare? Decidemmo lì per lì che non era il caso. Ognuna era impegnata a mantenere il segreto, in caso di arresto, almeno per un certo periodo, tanto da consentire al gruppo di riorganizzarsi.
Ogni tanto compivamo qualche gesto “dimostrativo”.
In occasione dell’8 marzo del 1945 andammo, con mezzi diversi e per vie diverse, al cimitero a deporre fiori sulle tombe di fucilati o di vecchi antifascisti. Con me quel giorno c’era Ida Citterio e, se ben ricordo, Iride Messa, la dattilografa di Riboldi, che collaborava con noi. Ricordo che Ida, la quale forse già sapeva che il fratello Gianni era morto, mi disse: “Se Gianni non c’è più, spero che anche sulla sua tomba oggi depongano dei fiori.” Quella volta attraversammo un momento di perplessità: i fiori legati con un nastro tricolore cui era appuntato un cartoncino con la nostra sigla, attirarono l’attenzione di due tizi che si avvicinarono. Non successe nulla.
Nel 1944, in occasione degli scioperi del marzo, fu arrestato mio zio, subito rilasciato dopo un interrogatorio, ma furono arrestati anche Prina, Arosio, Guarenti e successivamente Gambacorti Passerini. Tutti avevano famiglia. Mogli e sorelle si misero in contatto con noi. Ricordo in modo particolare Elena Mauri Prina che, dopo il trasferimento del marito a S. Vittore, riuscì a stabilire qualche contatto grazie all’aiuto di un secondino per cui ci pervenne qualche messaggio. Fu la signora Elena che ci comunicò per prima, nel luglio, la notizia della fucilazione. L’aveva appresa da un’altra vedova che in quei giorni era a Carpi. Non rinunciò a collaborare, anche se doveva provvedere da sola alle tre figlie, e continuò anche dopo la Liberazione.
Nel frattempo continuavo gli studi universitari. Non mi potevo permettere il lusso di perdere anni perché la mia famiglia aveva bisogno del mio lavoro. Cercavo di dare tutti gli esami nella sessione estiva per non indossare la sahariana nera delle giovani fasciste. D’estate bastava una giacca bianca e una gonna nera, all’ultimo momento mi mettevo attorno al collo il fazzoletto azzurro, ed era fatta. Debbo dire che dopo il 1943 all’Università Statale i professori chiudevano un occhio ed alcuni, come Antonio Banfi, li chiudevano entrambi.
Dopo la laurea nel 1944, riuscii ad avere una supplenza al Ginnasio Zucchi. Qui incontrai Luigi Panzeri, Ugo Cappelli, Luigi Rodelli, Giulia Ferrario, tutti antifascisti convinti.
Giulia Ferrario fu arrestata e atrocemente torturata a Milano. Luigi Panzeri, comunista, mi chiese un giorno di entrare a far parte del Comitato di Liberazione Nazionale della Scuola e a mia volta convinsi a collaborare anche una collega, Angela Maria Amirante, che aveva buoni motivi per essere antifascista: la madre era ebrea. All’inizio del 1945 due miei scolari di quinta ginnasiale furono arrestati con altri giovani in quanto facevano parte del Fronte della Gioventù (fondato da Eugenio Curiel, fucilato dai fascisti, medaglia d’oro della Resistenza) organizzato da Piero Gambacorti Passerini. Quando furono rilasciati e ripresero le lezioni mi chiesero di poter venire a casa mia. Volevano avvertirmi che erano stati costretti a fare il nome dei loro insegnanti, e quindi anche il mio. Li rassicurai: non lavoravo con il Fronte e quindi non sarei stata coinvolta nella faccenda. Quanto al resto, il nome Farè era abbastanza noto ai fascisti monzesi per i decenni di vita politica di mio zio, e quindi non rappresentava una scoperta.
E venne il 25 Aprile, anzi per Monza il 26. Tutto sarebbe cambiato.
Dopo il 1945
Era venuto il momento di fare scelte precise per me. Non potevo rinunciare all’attività politica e scelsi l’iscrizione al Partito Socialista di Unità Proletaria, nato dalla fusione del vecchio Partito Socialista Italiano e del Movimento di Unità Proletaria. Non fu una scelta difficile e non fu dettata da ragioni affettive. Che ne facesse parte anche mio zio non importava, ero convinta di quello che facevo. A questa scelta avevano contribuito le parole di compagni monzesi e non monzesi, tra cui Lelio Basso che durante la clandestinità avevo avuto modo di conoscere nello studio dello zio.
La mia attività continuò su diversi binari: attività professionale come insegnante, attività politica e di partito, attività amministrativa come consigliere comunale, ma non dimenticai il movimento femminile. I gruppi di Difesa si trasformarono nell’ Unione Donne Italiane dove mi impegnai finché mi fu possibile, a Monza e a Milano, dove incontrai e ritrovai amiche come Vera e Rita Grattarola, Elena Prina, Maria Rizzardi, Elena Citterio, Teresina Gelosa, ecc.
Venne anche il momento di una grave crisi politica: la scissione del PSI nel quale non mi riconoscevo più e il passaggio al risorto PSIUP nel quale militai fino allo scioglimento. Del resto non era nato per durare, ma solo come momento di passaggio.
Infine l’iscrizione al Partito Comunista Italiano.
Oggi.
Qualcuno mi ha chiesto cosa faccio oggi. La vita politica attiva mi è diventata difficile, il che non esclude la mia disponibilità per quanto mi è possibile.
Continuo a vivere nel mondo della scuola, che mi ha dato in fondo molte soddisfazioni. Di quanti allievi sono rimasta amica!! Alcuni me li sono ritrovati accanto durante tante lotte politiche, altri no; ma senza falsa modestia sono sicura di aver seminato qualcosa.
Se ripenso agli anni passati e confronto la situazione della scuola di allora con quella di oggi, credo di poter affermare che i primi scossoni al vecchio sistema autoritario, nozionistico, paternalistico, li abbiamo impressi noi.
Poi il 1968 ha decisamente modificato la situazione. Ma c’è anche il rischio che, se altri non continuano l’opera, si ritorni indietro. Per questo rimango.
Per quanto riguarda il mondo femminile, i primi passi verso la soluzione di tanti problemi sono stati fatti grazie ai Gruppi di Difesa della Donna e dell’UDI. Poi è venuto il femminismo che ha accelerato i tempi, ma anche in questo campo nessuna conquista è mai definitiva e bisogna continuare a lavorare.
In fondo, la Resistenza continua.”
Fonte: http://www.anpimonzabrianza.it/testimonianze.html#eugenia-fare